Arte & Cultura

RISCOPRIAMO IL GRANDE DINO BUZZATI

Il 28 gennaio 1972, in un gelido pomeriggio dell’inverno milanese, si spegneva una delle voci più originali del Novecento italiano.

(Milano)-Un ricordo di Dino Buzzati. Fare le capriole con la mente è un esercizio che richiede agilità e sprezzo del pericolo, tanto più difficile quanto essenziale per sopravvivere in tempi inquieti. Di come le parole possano rischiarare giorni bui è un esempio l’opera di Dino Buzzati, che viene alla luce negli anni più oscuri della storia del Novecento.

Lo avevano definito il “Kafka italiano”, Dino Buzzati morì esattamente cinquanta anni fa, il 28 gennaio 1972, 65 anni compiuti appena tre mesi prima. Tumore al pancreas. Ma Montanelli assicurava che, a dargli un colpo risolutivo, era stato qualcosa di più grave: una sorta di “processo del popolo” cui “la zarina” Giulia Maria Crespi, editrice “rossa” del Corriere della Sera, lo aveva fatto sottoporre dagli amici del suo salotto, e che presenta appunto aspetti kafkiani. “Giulia Maria”, raccontava Montanelli, “si era messa in testa di fare il padrone illuminato. Ma i lumi dove li aveva, povera disgraziata? Io non l’ho mai mandata giù: lei, il suo salotto, la sua faccia”. Un giorno, prosegue il racconto, “riunì in quel suo detestabile salotto dei critici i quali le dissero delle cose contro Buzzati e la sua maniera di fare critica d’arte”.

Quest’anno un solo giorno di distanza separa il 50esimo anniversario della morte di Dino Buzzati (Belluno, 16 ottobre 1906 – Milano, 28 gennaio 1972) dal centenario della morte di Giovanni Verga (2 settembre 1840 – 27 gennaio 1922), un autore che, nell’Autoritratto affidato al dialogo con Yves Panafieu nel 1971, Buzzati ricorda per dire che cosa di lui, “in fondo”, non gli piace.

Dopo la laurea in legge a Milano, la sua città, nel luglio 1928 Buzzati entra nella redazione del Corriere della sera, dove lavorerà tutta la vita – tranne per un breve periodo dopo la fine della guerra, quando co-fonda e scrive per il Corriere lombardo –, ricoprendo vari ruoli: cronista di nera, corrispondente di guerra e inviato, e ancora elzevirista e cronista d’arte, fino a diventare caporedattore della Domenica del Corriere (gli articoli di nera degli anni 1945-1971 sono ora raccolti in un volume a cura di Lorenzo Viganò uscito per Mondadori nel 2020).

Quello di Buzzati con la letteratura e con la scrittura letteraria è in effetti un rapporto un po’ disordinato, fin da quando, da ragazzo, nelle estati trascorse nella villa di famiglia a San Pellegrino, si avvicina a romanzieri come Tolstoj, Balzac, Manzoni, e allo stesso tempo subisce il fascino delle fiabe e leggende nordiche che sente raccontare dalla tata, di famiglia tedesca, e che rivive nella fantasia ambientate nell’amato paesaggio delle montagne circostanti. E anche da adulto, quello dello scrittore non è il suo primo mestiere.

Sin dall’esordio, nel 1933 con Barnabo delle montagne, la sua è una scrittura che intreccia realtà e stravaganza, logica e assurdo, con un linguaggio limpido e semplice, capace di far vedere l’invisibile e di far credere nell’incredibile. Riscoprire la sua opera, oggi, vuol dire trovare conferma all’idea che non esiste realtà più vera dell’immaginazione.

Dal mestiere di giornalista – ha poco più di vent’anni nel 1928, quando arriva al “Corriere” e vi resterà per quasi tutta la vita – Dino Buzzati impara che la realtà è piena di fatti che hanno risvolti misteriosi e inspiegabili. Con la puntigliosa esattezza del cronista, congegna intrecci che tengono insieme il tono dell’inchiesta e il passo del racconto, come avviene tra I misteri d’Italia, la raccolta postuma dei suoi pezzi dedicati ai fenomeni di parapsicologia, in cui dà voce a storie strane – quelle di cui di solito si sussurra, non si parla – e in cui esplora gli angoli dimenticati della provincia italiana. Le soffitte polverose delle case, le ombre dei giardini, tutti quei luoghi in cui può sentire «il senso del tempo, il senso di tutti quelli che sono vissuti prima di me e sono lì, il senso del domani che non si sa cosa sarà».

La quercia, l’abete, il larice, il mugo, il noce sono per Buzzati compagni di viaggio, nella vita e nell’opera, e non è un caso se a un albero, il liriodendro della casa paterna di San Pellegrino, sarà dedicato l’ultimo elzeviro per il “Corriere della Sera”, nel 1971: «Molti anni sono passati, io oramai con i capelli bianchi, e lui niente, lui il gigante sempre più verde a ogni primavera. La grande ombra gira lentamente sul prato, sul tetto della casa, sul prato ancora, all’ultimo tramonto allungandosi fino laggiù al fienile. E io povero diavolo».

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